Bernardi (Federprivacy): tutelare la privacy in tempi di IA, social network e fake news


Per Caltalks intervistiamo Nicola Bernardi, presidente di Federprivacy, la principale associazione italiana di categoria che si occupa della tutela della privacy e della sicurezza delle informazioni. Esperto in diritto e regolamentazione della privacy, grazie alla sua vasta conoscenza in materia Bernardi è una voce autorevole nel dibattito sulla protezione dei dati e la sicurezza online.

Caltalks raccoglie e condivide con i lettori i punti di vista di personalità, innovatori, decision maker e opinion leader per comprendere i temi e le scelte che stanno cambiando il mondo. Il format punta a offrire analisi e raccogliere idee inerenti ai fatti e trend che stanno modificando la società dal punto di vista economico, sociale, ambientale, tecnologico, politico e istituzionale.

Partiamo dal prossimo Privacy Day Forum: ci può raccontare quali saranno le principali tematiche trattate durante l’evento?
Le principali tematiche saranno quelle che destano maggiori preoccupazioni riguardo l’utilizzo dei nostri dati personali, nonché i conseguenti impatti che hanno sugli utenti. Quindi ci concentreremo in particolare su Intelligenza Artificiale, Social Netwok, Fake News, ma anche sulla privacy in ambito di lavoro perché l’invasività della nostra sfera privata dei lavoratori è diventato un tema davvero caldo. D’altra parte, con circa 50 interventi da parte di autorità ed esperti della materia, possiamo dire che affronteremo i temi della protezione dei dati a tutto tondo, cybersecurity compresa.

Entrando nello specifico, quali sono le principali sfide che Federprivacy affronta nel proteggere la privacy e la sicurezza delle informazioni degli utenti dei social media, in particolare per i giovani?
La sfida più grossa non è tanto quella di innalzare il livello di protezione dei dati, ma quella di aiutare le persone a capire che proteggere i propri dati significa proteggere se stessi. Specialmente i giovani sono cresciuti trovando del tutto normale mettere in piazza la loro vita, credendo di raccontare le loro attività solo ai loro amici online. Ma in realtà la loro disinvoltura sui social non è altro che il frutto di una strategia mirata da parte di colossi tecnologici, che li hanno persuasi a pensare così. Infatti con quelle informazioni fanno business e si arricchiscono alle loro spalle. E in certi casi i giovani credono di pensare con la propria testa, senza rendersi conto che le loro opinioni sono state condizionate da quello che vedono passare davanti ai loro occhi sugli schermi dei loro device. Purtroppo non si rammenta abbastanza che nello scandalo di Cambridge Analytica sono state influenzate le opinioni di 87 milioni di cittadini, i quali con il loro voto hanno poi determinato l’elezione di un presidente degli Stati Uniti.

Lei ha citato l'uso di "dark pattern" come uno dei mezzi di persuasione impiegati dai social media per ingannare gli utenti. Potrebbe spiegarci brevemente cosa sono e quali conseguenze possono avere sulla privacy degli utenti?
I “Dark Pattern”, sono quelle pratiche di manipolazione scorrette che spingono gli utenti a compiere scelte online che non necessariamente sarebbero nel loro interesse, facendo spesso leva sull’emotività e sull’urgenza dell’ultimo prodotto rimasto con un’offerta irripetibile. Oppure mettendo in evidenza il pulsante bello colorato che ci fa accettare delle condizioni sfavorevoli, lasciando spesso quello che ci darebbe maggiori vantaggi con un grigio quasi imboscato nella grafica di un sito o di una app. In pratica, i dark pattern sono dei veri e propri inganni che incontriamo tutti i giorni sul web e che accettiamo quasi automaticamente, senza neanche prenderci il tempo di riflettere su cosa comporti effettivamente quella determinata scelta. La quale ovviamente avrà solo penalizzazioni per noi.

Ha anche proposto l'introduzione di un avviso preventivo sui rischi legati alla pubblicazione di contenuti sensibili. In che modo questo avviso potrebbe funzionare?
Come fu fatto a suo tempo per le sigarette relativamente ai danni sulla salute che può comportare il fumo, così una soluzione efficace sarebbe che prima di postare un contenuto sensibile, gli utenti visualizzassero un avviso sui concreti rischi che corrono se decidono di procedere con la pubblicazione. Ovviamente, questo non risolverebbe il problema alla radice, ma almeno gli utenti sarebbero finalmente resi consapevoli di quello che rischiano cedendo la loro privacy in modo disinvolto. Ad esempio, se prima di fornire i propri dati personali comparisse un banner che dicesse chiaramente che fornendo i nostri dati autorizziamo call center a telefonarci ogni giorno per proporci ogni sorta di prodotti, ci penseremmo un po’ prima di dare il nostro consenso. Quello che manca è quindi la consapevolezza da parte degli utenti.

Quali sono, secondo lei, i principali fattori che contribuiscono alla rinuncia generalizzata alla privacy da parte degli utenti dei social media?
Nulla è per caso. Gli esperti di marketing e di psicologia studiano da anni i comportamenti degli utenti e le loro reazioni e via via hanno affinato le loro strategie in modo subdolo ed efficace. Peraltro, come in passato c’erano i testimonial che ci spingevano a comprare un prodotto perché lo reclamizzava un personaggio famoso che ci infondeva fiducia, i social hanno inventato gli influencer, dei quali gli utenti tendono ad emulare i comportamenti. Ma gli influencer difficilmente sono tali semplicemente per passione: generalmente sono ben remunerati dai social e da altri siti web e non fanno altro che monetizzare la loro notorietà.

Infine, quali sono le principali raccomandazioni e i consigli di Federprivacy per gli utenti, in particolare i giovani, per proteggere la loro privacy e sicurezza online?
Sarebbe inutile comprare la più robusta cassaforte del mondo se poi non la utilizzassimo per custodirci i nostri beni più preziosi. E nella nostra era i dati personali sono tra le cose più preziose che abbiamo, non a caso sono stati definiti “il nuovo petrolio”. Quindi, il consiglio è più che altro quello di custodire le informazioni che ci riguardano stando più attenti all’uso che ne facciamo e a chi li affidiamo. Una volta che abbiamo compreso il valore dei dati, potremo poi anche avvalerci dei vari strumenti che ci possono aiutare a proteggerli. Ma la cultura rimane il primo obiettivo da raggiungere, perché ancora oggi c’è un’altissima percentuale di utenti che usa “pippo” o “1234” per i propri account o che ancora crede che mettere un “like” sia un innocente gesto per comunicare a un amico online che ci piace quello che ha postato. Mentre in realtà ogni nostra attività online viene registrata e profilata per studiare i nostri gusti, le nostre preferenze e anche le nostre debolezze.

Servizio a cura di Stefano Calicchio (C) riproduzione riservata

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