Curcuraci, Karate e forza interiore per superare gli ostacoli della vita

Curcuraci, Karate e forza interiore

Per Caltalks intervistiamo Fabrizio Curcuraci, maestro e campione mondiale di Karate. Con un inizio di pratica nel lontano 1979 e una carriera agonistica che lo ha visto salire più volte sul podio europeo e mondiale, Fabrizio ha vissuto sotto ogni aspetto questo sport. La sua devozione e passione hanno raggiunto l'apice con la conquista del 5° Dan di grado internazionale nel 2018. Oltre alle sue imprese in gara, Fabrizio ha anche condiviso la sua esperienza e la sua filosofia come istruttore, avvicinando e appassionando le nuove generazioni verso questa disciplina.

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Fabrizio, può raccontarci come e quando ha iniziato a praticare Karate? In che modo si è approcciato a questa disciplina?
Ho iniziato a praticare Karate per curiosità, grazie a un familiare. Mi ha spinto a provare mio fratello. Io ho nove fratelli e sono il secondo in ordine di nascita. Il maggiore era quello con più iniziativa e aveva sentito parlare di un corso su questa disciplina. Avvenne tutto nel mese di novembre 1979. Avevo 8 anni. E lui, venendo a conoscenza di questo corso, mi ha proposto di farlo insieme. Così abbiamo iniziato per caso, ma spinti anche da mio padre che era una persona a cui piacevano gli sport da contatto.

Come si è realizzato il suo percorso dalla cintura bianca alla cintura nera? Quali sono state le sfide maggiori che ha dovuto superare?
Quello che mi ha spinto fin dall’inizio a perseverare sono stati i risultati. Quando si entra nel flusso i risultati arrivano fin dall’inizio e per tanti motivi. Perché si è già predisposti. Per l’amore messo nell’attività che piace… e per l’impegno che diventa crescente, attivando un circolo virtuoso. La disciplina in sé mi piaceva e all’inizio vedevo tutto come uno sport. Vedevo che riuscivo ad ottenere risultati crescenti. E a casa erano contenti. Tra noi fratelli ci motivavamo a vicenda e ci allenavamo insieme. Quindi ogni cambio di cintura era un obiettivo che ci si poneva. Era sempre una crescita, non solo di livello ma una crescita fisica, psicologica e personale. Come nel combattimento, non è sufficiente la tecnica. Serve la strategia. La concentrazione. E serve avere una visione globale. Non sempre vince il più forte. Spesso prevale quello più concentrato, più umile e che sa cogliere le opportunità del momento. È una bella metafora della vita.

I mondiali del 2005 a Chicago sono stati un punto culminante nella sua carriera. Come ha vissuto quelle competizioni e quali emozioni ha provato vincendo due ori?
Portare a casa due ori è stato molto emozionante. Quell’anno paradossalmente avevo già 34 anni, ma stavo bene fisicamente. Ero particolarmente in forma. In quella competizione c’era la mia compagna, combatteva anche lei. E quindi il mood, l’aria che si respirava e il contesto in generale mi hanno permesso di ottenere una performance per me straordinaria. Poi ero il capitano della squadra e avevo anche la responsabilità di caricare i ragazzi. Quando vedevo le facce dei ragazzi emozionatissimi prima di entrare, mi dovevo inventare sempre qualcosa. Ed è un’altra metafora importante, quella dell’abituarsi a dare il meglio sotto stress.

Oltre l’aspetto sportivo, quale importanza attribuisce alla filosofia e ai valori del karate nella sua vita personale?
I maestri giapponesi ci dicevano sempre che quando si sta bene è facile allenarsi e fare il risultato. Ma è quando non ci si sente al meglio che bisogna allenarsi di più e superare le difficoltà. Ed anzi, paradossalmente può avere la propria importanza andare alla ricerca del limite, della difficoltà e della strada più scomoda. Le scorciatoie arrivano dopo, quando tu ormai hai capito. Ma all’inizio sono controproducenti. E questo si vede anche nella nostra vita di tutti i giorni. È importante impegnarsi il più possibile per mettere alla prova le proprie capacità e possibilità. Ci sarà sempre qualcuno più bravo di noi, ma la vera sfida è con se stessi e non rispetto agli altri. Andare alla ricerca del proprio limite e toccarlo. E da lì, si può soltanto migliorare, perché significa saper affrontare le debolezze, per trasformarle in punti di forza.

Da istruttore, c’è un aspetto del karate che ritiene particolarmente importante insegnare ai giovani atleti?
La filosofia del karate è di non piangersi addosso. Non ricorrere a scuse. Ci si adatta il prima possibile alla nuova situazione. È qualcosa che arriva dalla cultura giapponese. Loro non si perdono nelle scuse. Di fronte al problema, non devi scappare. È importante mettere fin dall’inizio il massimo della concentrazione e dell’impegno per progredire. Alla fine della pratica puoi rilassarti. Significa abituarsi all’impegno e al sacrificio, per raggiungere un obiettivo finale più grande.

Come ha festeggiato il conseguimento del 5° Dan di grado internazionale nel 2018?
3 dicembre 2018. L’abbiamo fatto insieme io e mio fratello. Siamo andati tutti a mangiare fuori. È venuto un importante maestro giapponese a presiedere lo stage e poi ci ha esaminato insieme alla commissione internazionale. E quindi nella prova di combattimento ho combattuto con mio fratello… ed è stato ancora più coinvolgente. Un ricordo che conserverò sempre con grande emozione.

Come vede l’evoluzione del Karate nei prossimi anni e in che modo, secondo lei, questa disciplina potrà dare un contributo per creare un mondo migliore nel quale vivere?
Come filosofia di vita, per me vale il Karate tradizionale, quello che ti porta a lavorare su te stesso. A superare le tue paure, le tue ansie e le tue debolezze. Ed a cercare sempre il limite per superarlo, quindi al miglioramento. Devi toccare il limite per fare davvero il salto. La crescita c’è quando cominci a sudare, sputare sangue. Quando ti imbatti negli errori, nelle difficoltà, nei momenti difficili. E da lì cerchi di rialzarti per ripartire. Prendendo spunto e facendo tesoro di tutto quello che hai vissuto. Questo è il contributo che può dare il Karate tradizionale. Il Karate sportivo è invece diventato molto legato al gesto tecnico e alla spettacolarizzazione del combattimento. È anche quello un ambito interessante e promettente, ma il lavoro su se stessi si fa con la filosofia della via tradizionale.

Se dovesse dare un consiglio ai giovani praticanti che stanno iniziando ora il proprio percorso, cosa direbbe loro?
Consiglierei loro di imparare a riconoscere e accettare le proprie debolezze, per superarle e utilizzarle a proprio vantaggio. Perché quello che vedo come una debolezza nella vita non è altro che uno spunto per trovare se stessi. Una cosa che avviene passandoci attraverso. Ed infatti, è soltanto passandoci attraverso che puoi risolvere i problemi. Finché cerchi di girarci intorno, non potrai mai crescere. Secondo me il modo migliore per crescere è di guardare in faccia ai problemi e rimboccarsi le maniche. Per trovare ovviamente una propria soluzione. Perché esiste sempre una soluzione.

Servizio a cura di Stefano Calicchio (C) riproduzione riservata

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